“Donne in Guerra”- Laura Santini – Mentelocale

foto di davide bertucci

E si riparte. E come si dice sempre è il viaggio che conta, non la meta. E i/le compagni/e di viaggio.
Presentato nel 2008Donne in guerra è uno spettacolo creato appositamente per iltrenino storico di Casella (su cui si svolge) che quest’anno replica per la terza volta di seguito (con grande successo di pubblico), proponendo con estrema originalità uno stralcio di storia contemporanea, la guerra civile alla fine della seconda guerra mondiale.
A partire da testimonianze orali, documenti epistolari o archivi storici rielaborati in un testo, forte e poetico, creato da Laura Sicignano (anche regista) e Alessandra Vannucci, che si è meritato una menzione al Premio Ubu come miglior nuovo testo italiano.

Lo spettacolo-evento itinerante è in replicadal 26 maggio al 5 giugno (riposo il 2 giugno) sempre alle ore 20.15 (posti limitati, prenotazione obbligatoria: ore 10-13 e 14-17 al tel. +39 010 694240 – 694029; oppure ore 14-19 al +39 340 0975765 – online su teatrocargo.it,genovateatro.ithappyticket.it).

E se il testo è un punto di partenza di indiscutibile valore (storico-sociale) e godibilità (struggenti vissuti in prima persona), le sei interpreti (Fiammetta Bellone, Sara Cianfriglia, Elena Dragonetti, Barbara Moselli, Irene Serini, Raffaella Tagliabue), che danno voce e corpo ad altrettante identità profondamente diverse le une dalle altre, non sono meno essenziali all’ottima e convincente riuscita del lavoro. Scavando nelle umane contraddizioni, Donne in guerra ci restituisce quelle a volte incomprensibili della Storia. E così i grandi perché si dissolvono in un farsi caotico svolto dentro piccole o grandi individuali necessità, vicende umane e desideri che non corrispondono a un grande progetto ma sono piccole trame che lo tessono in unpatchwork finale che testimonia, più che spiegare le follie collettive di un passato recente.

Aspettiamo sul binario della stazione di Casella (in piazza Manin, a Genova) accanto ai tre vagoni del trenino storico, non lontano dall’attuale convoglio che più volte quotidianamente fa la spola tra Genova e l’entroterra. L’attesa non è lunga per l’inizio (ore 20.15): sei figure di donne dai vestiti decisamente retrò, attraversano il marciapiede, mentre gli spettatori si dispongono lungo le linee gialle di sicurezza, lasciando uno spazio per l’agire. Sullo stretto palcoscenico en plein air, vestita di giallo, alta e magra, con un giacchino di cotone bianco all’uncinetto è Irene (Irene Serini) con la sua bambola di pezza e ceramica: dinoccolata, con uno strano sorriso infantile e un gesto nervoso e ripetuto delle dita e della bocca. Poi arrivano insieme Anita (Elena Dragonetti), con il basco, la sacca e il fazzoletto al collo da partigiana; la mite e sorridente Maria (Barbara Moselli), in un decoroso e semplice abbigliamento da contadina, quindi Milena (Sara Cianfriglia), in divisa verde scura da Ausiliaria della Repubblica Sociale Italiana. Da ultimo, ecco la signora De Negri (Raffaella Tagliabue), con un collo di pelliccia su un tailleur nero completato da un cappellino e Zaira (Fiammetta Bellone), la levatrice, dalle lunghe gonne che si confondono con una sacca piena di erbe e rimedi perché, in tempo di guerra, tocca a lei occuparsi dei morti oltre che dei nuovi nati.

Ti offrono una fetta di salame, una caramella, ti si siedono accanto, ti fanno una domanda, ti chiedono di reggere qualcosa, ti scontrano e chiedono scusa, così la regia interpreta questo spettacolo-viaggio lavorando sulla relazione tra personaggi tanto quanto su quella tra interpreti e spettatori. E se lo spazio genera continue complicazioni, luci a mano, rumori del treno, salite e discese; altri elementi come casse e massi, oltre che un fondale verde naturale di castagni veri di un bosco vero, diventano scena praticabile dall’impeccabile rifinitura.

foto di davide bertucci

Irene racconta sempre della mamma tirando fuori da una sacca povera foulard alla moda e ventagli di piume di struzzo che parlano della bellezza che non c’è più, dalla sua memoria tira fuori pezzi di canzoni che le smuovono lacrime e preghiere. Per salvarla il nonno la chiuse nella sua stanzetta, ancora bambina, ma la pioggia non finiva e i tedeschi riparatisi nella sua casa, la vollero veder ballare e con i moschetti le alzarono il vestito. Anita è spavalda, femminista, uno spirito libero e indomito che sprona Maria ad emanciparsi e non solo per non morir di fame. Verso Milena, Anita nutre un disprezzo fisico, che esprime in modo maschile in un corpo a corpo e in sfide dello sguardo e con il sarcasmo. Milena, o Lenina come la chiamava il padre-padrone da cui è fuggita, è un’idealista che in Mussolini ha visto «il condottiero, il giusto, l’incorruttibile» e affascinata dai viaggi, dallo studio e soprattutto dalle divise nazifasciste abbraccia la causa della patria. Maria, prima che Anita la pungoli, pensa solo al suo Mario e a come farà senza di lui che deperisce lassù in Germania dov’è finito per il lavoro volontario. Ma tra i lavoratori in fabbrica si trasforma in una paladina della pace e dei diritti. La signora De Negri non ci sta alle pagliacciate e non crede che siamo tutti uguali, né nella democrazia «se era democratico Dio non ci faceva uno magro e uno grasso, uno brutto e uno bello… Io voglio solo l’Italia più ricca». Zaira è l’unica voce cronachistica di questo materiale umano che lo spettatore subisce come ingombrante compagno di viaggio grondante emozioni; come un medico mette giù i fatti perché non può coinvolgersi mai troppo. Zaira conta i nati e i morti e lascia in mano ad ognuno un piccolo frutto perché la vita germogli di nuovo a primavera.

foto di davide bertucci

Struggente divenire di personaggi, Donne in guerra non si esaurisce nello spettacolo (dallo strepitoso finale nel bosco che mette tutti ‘buoni’ e ‘cattivi’ nudi di fronte alla morte), ma va avanti perché chi ti stanno accanto, chi viaggia con te con i sui 80 o 87 anni crea la tensione e guardandoti intensamente, dice «Voi non vi ricordate ma noi… Io l’ho vissuto…avevo 10 anni e mi viene da piangere…ricordo ancora i bombardamenti e la scuola dove ci mandarono…e la fame, la fame»Oppure voltano lo sguardo, si mettono le mani sulle tempie e stringono come a scacciare indietro terribili ricordi: «Io sono del ’24… mi fa pensare a tante cose, e ricordare quello che non vorrei. Ce le ho ancora tutte sulle spalle…E gli americani, c’hanno salvato, per così dire. Ma poi cercavano le ‘signorite’ e allora i padri nascondevano le figlie nei forni… E la fame, ci hanno lasciato senza mangiare per sei mesi e allora ci cibavamo di carrube». E il racconto – e lo spettacolo – prosegue, altrettanto straziante, nel viaggio di ritorno. Ora sono le persone sedute di fronte a me nello scompartimento con i loro capelli bianchi, un po’ duri d’orecchio, cone le gambe e la vista mica più tanto buone, che evocano a mezza bocca (come per pudore) la Storia, quella che gli è passata addosso, quella della fame più atroce, della paura, delle privazioni, delle responsabilità troppo grandi, di un tempo che noi non potremo mai capire.